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Viaggio ai tempi del coronavirus

Immagine del redattore: The Rolling PotatoThe Rolling Potato

Aggiornamento: 19 set 2023

Ho letto diverse riflessioni in questi giorni riguardo al coronavirus e alla quarantena, le misure precauzionali, i decreti ministeriali che trasformano le città in un mondo post cataclisma...sembra un po’ di essere nei film The Day After Tomorrow o I’m a Legend, dove non sono né cani-lupi né zombies a trovarci e ucciderci, bensì poliziotti che ci multano o mettono in gabbia se usciamo di casa senza un motivo valido. Gli sembra un’idea geniale riempire carceri già sovraffollate, con condizioni socio-sanitarie atroci e a rischio epidemia totale e morte annunciata.


La situazione di allerta e urgenza fa riemergere tutti i tagli alla sanità operati da governi corrotti e infami che si ritrovano ora a dover gestire quest’enorme emergenza sanitaria sulla pelle di lavoratrici e lavoratori che non si tirano indietro negli ospedali e che chiedono giustamente di fare la nostra parte restando a casa e riducendo al minimo le occasioni di possibile e facile contagio.


Leggo interessanti pensieri su come il restare a casa si inserisca in un’ottica di cura e responsabilità verso l’altr* e di solidarietà affinché questa situazione si risolva in fretta e duri il meno possibile. Concetti a cui si fa poca attenzione nella quotidianità normale a cui siamo abituati. Continuo a pensare che se tutti i paesi e i territori si dichiarassero zona rossa, facessero stare tutt* a casa e chiudessero tutti gli aeroporti, questa folle epoca di epidemia, panico e negligenza generale potrebbe finire prima senza far espandere ovunque questo male con la corona in testa che imperversa e ci governa.


E qui insorgono le questioni importanti: il reddito di quarantena, la tutela per quelle persone che una casa non ce l’hanno, per tutt* le lavoratrici e lavoratori precari, per tutte le case rifugio e i centri d’accoglienza che non devono fare una vita facile. Si dovrebbe innescare un meccanismo di solidarietà, di condivisione di quello che si ha. Certo un po’ distanti, ma allo stesso tempo paradossalmente più vicini e in ascolto rispetto al solito. Infatti, quando quotidianamente sull’autobus siamo schiacciati l’un* contro l’altr*, non ci guardiamo nemmeno in faccia e non ci aiutiamo in caso di necessità, siamo appiccicati ma molto lontani. Quindi questo tempo ci può far riflettere, pensare e ripensare le dinamiche sociali che agiamo quotidianamente...quante volte invadiamo lo spazio di chi ci circonda senza chiedere se diamo fastidio o molestiamo, quante volte facciamo dei gesti fisici non graditi, quante volte non chiediamo il consenso per fare certe cose. Alcun* amic* mi hanno inviato dei messaggi belli trovati sui social, come ad esempio “quando poi ci riabbracceremo, sarà ancora più bello” o “possiamo pensarci intensamente e magari dircelo”.


Io non sono in Italia, non sono a casa, non sono in quarantena e non ho neanche la più pallida idea di cosa stiate provando, di quanta frustrazione, di quanta paura di non farcela a pagare l’affitto se non si lavora o di arrivare fino a fine mese, di non sapere cosa si può e cosa non si può fare, in che modo essere d’aiuto o in che modo tutelarsi e proteggersi reciprocamente.


Ma io non sono né un’esperta in lavoro né in economia, quindi mi limiterò a condividere e un po’ di riflessioni dall’altro lato dell’oceano...


Sono in Colombia da ormai un mese e l’allarme corona in Cina è scoppiato poco prima che io partissi, ma solo da qualche giorno mi ritrovo a parlare con voi che siete nel calderone della zona rossa di uno dei paesi fra i più temuti al mondo, e ci guardano come presunti terroristi che lasciano un pacchetto incustodito in aeroporto. È una metafora che penso riesca ad esprimere bene la discriminazione che prima i cinesi e poi anche gli “italiani” (per dire chiunque viva in italia) si ritrovano a subire. E da un lato un po’ di razzismo nei nostri confronti non ci fa male, anzi finalmente l’Italia, uno dei paesi con il passaporto più forte del mondo si trova costretto a non poter scappare e a dover spostarsi clandestinamente. Come nel caso dell’immigrazione, il responsabile non è chi arriva, non è chi ha paura di avere ancora meno se arrivano più persone vulnerabili nel proprio quartiere, ma sono gli Stati e i governi che continuano a togliere soldi dove dovrebbero investire: case, scuole e ospedali, si grida già da un bel po’. Certo quando sono i ricchi a rimetterci le penne, enormi teams di medici e scienziati si mettono a lavorare a livello internazionale come delle bestie per trovare il vaccino o le soluzioni più immediate ed efficienti da mettere in campo.


Qui sembra che ancora il virus non abbia allarmato i più ma è proprio quell’”ancora” che ci fa pensare che la maggior parte dei paesi non si stia preparando adeguatamente a questa crisi, sia dal punto di vista sanitario che economico e sociale. Se da un punto di vista ecologico, il virus sembra la battuta d’arresto e l’opportunità per ridurre le emissioni di CO2 e l’inquinamento dell’aria, da una prospettiva sociale, si prospetta una crisi finanziaria mondiale dove a pagarne le conseguenze saranno, come sempre, i più poveri e i più sfigati.

L’Italia ha chiuso le frontiere e non fa atterrare né partire più nessun aereo. Milioni di italiani migranti guardano al proprio paese con compassione e attesa, ma la situazione più esilarante è di chi come me si trova in viaggio, e nonostante fossi partita già senza biglietto di ritorno, ora l’avventura mi viene servita su un piatto d’argento.


E che dicono a casa? “Figlia torna, che rimani bloccata lontano da casa, in qualche paese con un sistema sanitario diverso e senza copertura”. Ecco il dilemma...a parte che non posso proprio tornare in questo momento (e forse non mi conviene considerando il maggior pericolo di infezione in Italia e l’esposizione maggiore in aeroporto rischiando di portare a casa il virus e fare autogoal), mi ritrovo a dover accettare di avere le stesse condizioni socio-politico-sanitarie di chi abita in Colombia e non può decidere come e dove farsi curare. Ne muoiono tant*, è vero, ma ne muoiono tant* ogni giorno e da sempre e nessuno se ne preoccupa, nei quartieri popolari, nei villaggi dimenticati, nelle guerre, nelle terre di confine, nelle case.

Viaggiare ti espone sicuramente a molti rischi, legati alla quantità di incidenti possibili su strade e trasporti che prendi con un’elevata frequenza, alle condizioni precarie in cui vivi, all’ignoranza riguardo l’origine del cibo che mangi, alla precarietà della fiducia che riponi nelle persone che incontri sul tuo cammino, alla vulnerabilità della terra che ogni tot scatena una tragedia ambientale da qualche parte nel mondo.

Incontro condizioni di vita a volte inferiori a quelle a cui ho il privilegio di accedere quando sono a casa, e se da un lato mi preoccupa e mi fa un po’ paura a volte, dall’altro mi fa pensare a una sorta di investigazione su come vivono gli altri: se mi ammalo qui, sarò curata come si curano qui? Chi lo sa, io rimango una bianca ricca che se vuole o ne ha urgenza paga quello che deve pagare, se ne torna a casa e si salva, lasciando indietro quanti non hanno questa fortuna e non ce la faranno. Il punto ora è continuare a viaggiare o fermarsi, prendere le proprie misure precauzionali o aspettare che ci dicano qualcosa dall’alto delle loro poltrone qui in Colombia e America Latina? Penso di dovermi fermare.


Parlando con un amico italiano appena atterrato in Australia dopo 2 mesi di viaggio in Asia, gli ho chiesto di raccontarmi un po’ di come si sente e cosa sta pensando di fare. Racconta della sua auto discriminazione per proteggersi, dicendo di non essere italiano a chi conosce, ma che poi ha deciso di non continuare a farlo perché si è ritrovato a mentire a una ragazza che invece ha detto tranquillamente di essere cinese.


Ecco questo dovrebbe farci pensare anche a un’altra questione o meglio a rimetterla in evidenza...il mio amico è italiano, ma vive in Spagna da più di un anno ed è in viaggio da più di due mesi, quindi nonostante la sua lingua madre sia l’italiano e si senta italiano, la sua origine e provenienza geografica e sociale al momento non è l’Italia. Anche io sono italiana in terra straniera, ma che vuol dire essere italiana? Se mi fermassero alla frontiera con qualche paese e non mi facessero entrare, come potrei difendermi e dichiarare di non essere in Italia da un mese e mezzo? Siamo persone che vivono in luoghi che non sempre corrispondo al nostro paese d’origine. Un africano finalmente oggi avrebbe le porte più aperte di noi...emblematico no? Forse questo virus sta cambiando il modo in cui ci vedono e vediamo? Può essere che questa situazione inneschi uno stato di rivolta e disobbedienza e che la gente finalmente si prenda quello a cui ha diritto o lotti per farlo? Non pagare più né affitto né bollette né la spesa è un atto rivoluzionario che è legittimato già dalle condizioni socio-economiche in cui ci fanno vivere quotidianamente, ma forse questo virus potrebbe diventare il nostro gilet jaune?

Casse di solidarietà, assalti ai supermercati e ai negozi esclusivi? Io sinceramente ci spero.


Giuseppe mi racconta anche di sentirsi in colpa quando condivide foto e video di viaggio mentre tutt* in Italia sono chiusi in casa. Certo, lo capisco, ma giusé, mi chiedo, se provassimo a pensare che questa è una costante generale di vita?...a dispetto di chi quotidianamente non ce la fa e vive per sopravvivere, noi accediamo a esperienze così fuori dalla portata di praticamente la maggioranza della popolazione mondiale. Io mi sento sempre in colpa, ma poi non faccio granché per mettere in discussione i miei privilegi, che non ho faticato a costruire, come invece hanno fatto altre persone, magari anche te, giusé.


E ancora...questa quarantena potrebbe essere l’occasione per imparare ad usare i social in maniera più intelligente, organizzarci virtualmente se non possiamo farlo per strada, invadere il web con le nostre richieste e rivendicazioni. Non sarà di certo la rivoluzione che aspettiamo, perché sarebbe comunque originata da un meccanismo di controllo non indifferente sulle nostre vite, però voglio credere che questa situazione di precarietà all’ennesima potenza riesca a smuovere un po’ gli animi dei più timidi o testardi e innescare un meccanismo di coscienza e autocoscienza.


Dall’Italia amiche e compagne mi raccontano che la gente non si sta prendendo cura dell’altr* e non rispetta nessuna misura per evitare il rischio di contagio...quindi insieme pensavamo che forse dei concetti che per alcun* di noi sono scontati non lo sono per tant* altr* e quindi che questa situazione possa rimettere al centro delle questioni importanti, come la cura reciproca, la solidarietà e la condivisione, l’agire collettivo e per la collettività, la responsabilità comunitaria, il sostenere le piccole economie e uscire dalle dinamiche di mercato capitalista e di consumo sfrenato a beneficio di pochi ricchi e privilegiati, fuoriuscire dal proprio io per andare verso chi non ha le nostre stesse fortune. Penso a chi una casa non ce l’ha, a chi ha difficoltà a sopravvivere e a chi deve rimanere in una condizione di violenza domestica ancora più forzata.

Mi vengono in mente tante altre cose, ma mi fermo. Non lo so, pensiamoci, riflettiamo, diffondiamo pensieri e parole, sosteniamoci e usciamo dalle nostre routines e schemi mentali obbligati e non coscienti.

Un abbraccio virtuale a tutt*, che oggi è ancora più alla moda!


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